Film Legend 2015

Nell’East End londinese degli anni Sessanta nessun criminale era più temuto e più ammirato dei gemelli Krays. Reginald, detto Reggie, era attraente, elegante, e dotato di un grande senso degli affari. Ronald, detto Ronnie, era “sanguinario e irrazionale”, uno psicopatico con tendenze schizofreniche. Il loro rapporto veniva spesso descritto come complementare, ma Legend, scritto e diretto da Brian Helgeland, preferisce esaminarlo attraverso l’ottica dottor Jekyill/Mr. Hyde. Ronnie infatti viene dipinto come la parte animalesca e istintiva che Reggie cerca disperatamente di tenere sotto controllo, senza mai riuscire a liberarsene. Ma nella sua follia Ronnie è più onesto con se stesso e con gli altri – anche nell’affermare apertamente le sue preferenze omosessuali – e più abile nell’afferrare le conseguenze di lungo termine delle azioni e delle scelte del fratello.




La leggenda dei due gangster è già stata raccontata sul grande schermo (in The Krays con Gary e Martin Kemp nel ruolo dei gemelli), ma è la prima volta che un solo attore interpreta Reggie e Ronnie, e quell’attore è nientemeno che Tom Hardy, che finora non ha sbagliato un colpo, da Bronson a Inception, da Warrior a La talpa, da Il cavaliere oscuro a Locke a Mad Max: Fury Road. Purtroppo però questa volta Hardy azzecca solo metà della sua interpretazione, insinuando il sospetto di essere un meraviglioso prim’attore ma di non sapersi adattare al ruolo di caratterista: se nei panni di Reggie infatti Hardy non perde una sfumatura, creando il ritratto complesso e contradditorio di un uomo che nominalmente punta al successo “in chiaro” ma in realtà non sa rinunciare all’adrenalina del crimine, in quelli di Ronnie l’attore sconfina nella caricatura, forzando la voce, l’aspetto fisico, la postura per conferire al suo personaggio una componente camp poco adatta ad una trama con pretese di sottigliezza psicologica e di raffinatezza formale. In un certo senso è come se Hardy venisse messo a confronto con il rischio più grosso per la sua carriera: quello di passare dalla naturalezza di animale da palcoscenico alla Marlon Brando, che Hardy cita esplicitamente nel film con la battuta “avrei potuto essere un pugile”, ai vezzi esagerati da Actor’s Studio che rendono qualsiasi performance poco credibile e molto narcisistica.